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  • Immagine del redattoreGiorgio Cosulich de Pecine

La misura della distanza, due fotografi e l’enigma dell’altro da sé

Aggiornamento: 24 mag 2019






di Irene Alison /



Verso il Giappone, Giulio e Giorgio sono partiti con un bagaglio leggero. Preparato per un viaggio breve. Niente sovrastrutture, niente aspettative. Giusto poche cose: la memoria delle letture di Kawabata e Murakami, la vertigine dell’altrove, la percezione di una distanza insondabile.

Fermarsi poco, ripartire presto. Non appena arrivati, però, hanno capito che le cose sarebbero andate diversamente: il Giappone, per loro, aveva altri programmi. E quell’arrivo era solo il principio di un nuovo viaggio.

Giulio Napolitano e Giorgio Cosulich de Pecine, autori delle immagini raccolte in questo catalogo, fanno parte di quella schiera lunghissima di esploratori e narratori incantati dalla luce del Sol Levante. Il loro viaggio è diventato un incontro, molto più intenso e emozionante del previsto, con l’altro da sé. Con una differenza, nelle fisionomie, nei gesti, nella lingua, nei rituali e nelle geografie sociali, che nei secoli ha alimentato racconti, analisi e visioni. E che, oggi, a partire da questo inizio - una mostra e la pubblicazione che la accompagna - nutre un percorso per immagini che è già pronto a proiettarsi verso nuove tappe.


Fotografi, sperimentatori, creatori di sinergie, Giulio e Giorgio, da sempre, usano la fotografia come criterio di conoscenza della realtà. Ma c’è qualcosa di diverso in questo progetto.

Sguardi documentari accorti e informati, per una volta sono arrivati preparati solo a lasciarsi sorprendere. Professionisti di grande solidità, per una volta si sono sentiti liberi dalla pressione di consegnare un lavoro. Il loro percorso per le strade del Giappone è diventato un dialogo a distanza, ognuno sulla propria rotta ma sempre uniti da un’urgenza di racconto e di confronto condivisa (maturata e consolidata nel tempo anche attraverso la lunga esperienza creativa e curatoriale fatta insieme, con il network 14&15 Mobile Photographers). Ognuno col proprio linguaggio, ma entrambi con la consapevolezza di star seguendo la stessa traccia.

Sì, perché il bianco e nero impastato e annebbiato di Giorgio e i colori caldi e densi di Giulio provano a tradurre, nel perimetro ristretto ma profondissimo dei loro scatti, lo stesso mistero.

Armati solo di un telefono cellulare – mezzo d’elezione dei due fotografi, che da anni hanno fatto dell’immediatezza e della discrezione dello strumento un valore aggiunto per la loro ricerca - mimetizzati nel flusso dei turisti, identici in tutto e per tutto ai milioni di altri in cerca di una bella immagine, di una foto ricordo, di una fugace testimonianza visiva, si sono confusi nella folla per le strade di Tokyo, Osaka, Nara, Hiroshima, Kyoto. “La maggior parte di queste foto le ho fatte tenendo mia figlia sulle spalle”, dice Giorgio Cosulich de Pecine, “sentendomi persona e non fotografo”.


Eppure, queste due persone erano in cerca di qualcosa di più: la fotografia, per loro, è il mezzo, non il fine dell’andare. Lo scopo è capire, interrogarsi, attraverso le immagini, sulla soluzione a un enigma. Cos’è davvero il Giappone? Esiste davvero una e una sola identità (e se esiste, sarà mai accessibile a un occidentale?), o esistono soltanto infiniti, differenti punti di vista su un paese che è un mosaico di contraddizioni? Ecco, allora, l’obiettivo del loro telefono soffermarsi su un giovane solo che, a notte inoltrata, mangia una zuppa in una izakaya. O sui kimono multicolori di tre geishe che scivolano via lungo la striscia d’asfalto di una metropoli. Ecco le file ordinate e i personaggi fuori dal coro, il giardino zen e le luci di una sala giochi. Modernità e tradizione. Sublime e pop. Pudore e trasgressione. Rigore e kawaii. Shintoismo e progresso a perdifiato. Ogni scatto diventa il documento di un ossimoro, il disvelarsi, davanti ai loro occhi curiosi, di un nuovo pacifico contrasto.


Come tutti gli occidentali, Giulio e Giorgio sono rapiti dall’ossessione giapponese per l’ordine. Dall’uomo che ogni giorno, a Tokyo, tiene lucido il corrimano della metro. Sono ipnotizzati dalla comunicazione visiva della città: i neon, le insegne, i cartelloni pubblicitari. Sono affascinati dalla convivenza tra identità diverse. Dalla varietà delle sottoculture. Storditi dall’energia della moltitudine e dalla potenza della dimensione collettiva, cercano pause di sospensione, ragionano sulla relazione tra individuo e contesto, tra spazio pubblico e spazio privato, andando a caccia di brevi momenti di intimità e introspezione tra la folla.


Uno scatto dopo l’altro, il Giappone li seduce, li attrae, li respinge, li meraviglia. Non si concede mai fino in fondo, ma ricambia il loro interesse con generosità. O meglio, con quella ineffabile e distante cortesia che tanto sorprende chi per la prima volta approda in quest’arcipelago e che prende il nome Omotenashi: una ricerca di armonia nell’accoglienza delle esigenze dell’ospite. E, se è vero che più è lontano il legame con una persona, tanto più è imperativo per un giapponese essere cortesi, ecco allora che, per gli uomini e le donne incontrati lungo il loro cammino, concedersi all’obiettivo diventa un dovere di ospitalità. Vicino/lontano. Simile/diverso. Noi/gli altri. Tra questi opposti, c’è spazio per la danza, per il racconto, per l’immaginazione, per la fotografia. C’è la possibilità di accorciare le distanze, o di comprenderne meglio la misura. È questa consapevolezza ciò che Giorgio e Giulio hanno messo nel loro bagaglio al ritorno. Ma, lo abbiamo detto, questo è solo un inizio. Il viaggio non è ancora finito.

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